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Negli ultimi tempi si sente parlare spesso di “cancel culture” e di quanto possa essere pericolosa per i brand. Ma lo è veramente?
Ti è mai capitato di sentire l’uso colloquiale del verbo “cancellare” inteso come “eliminare dalla propria vita”?
Si può “cancellare” qualcuno le cui azioni non ci piacciono o qualcosa che non è andato nel verso giusto. Si possono persino “eliminare” dei brand che hanno, in qualche modo, deluso i propri consumatori o intrapreso azioni discutibili.
Per comprendere i movimenti “antibranding”, è importante capire che questi nascono dalle “brand community”, ovvero entità sociali in cui le persone interagiscono tra loro in relazione all’amore e la passione per un brand.
E si sa , quando le persone agiscono in gruppo ottengono automaticamente più potere. Per questo motivo, le brand community possono anche rivoltarsi contro un brand qualora questo non soddisfi le loro aspettative.
Le pratiche anticonsumismo esistono da sempre, come qualsiasi attività di boicottaggio (o buycottaggio?), con le conseguenti azioni di greenwashing da parte delle aziende sotto il mirino del consumatore.
Pensiamo, ad esempio, al caso di Nutella condannata per l’uso dell’olio di palma, e la seguente campagna ad hoc per chiarire. O, ancora, a tutti i brand di abbigliamento che hanno dovuto creare comunicazioni fur free.
La cancel culture
La “cancel culture” rappresenta un recente movimento nato proprio dal potere che i consumatori ottengono quando fanno parte di una community. Questo avviene quando si smette di supportare un brand in seguito ad una attività illecita, un’azione scandalosa, una campagna inaccettabile o semplicemente perché ritenuto problematico.
Vi è, dunque, un fallimento da parte di una organizzazione nell’adattare le proprie strategie di branding agli standard moderni e alle aspettative del consumatore di oggi, sempre più attento al politicamente corretto e alla sostenibilità.
Stiamo parlando del lato più “dark” del comportamento del consumatore.
Poiché le brand community prendono luogo principalmente in contesti digitali, dove il passaparola delle recensioni negative è veloce e soprattutto determinante per la crisi di un brand.
La cultura dell’eliminazione, dunque, può fare terra bruciata attorno a un prodotto o una marca, in maniera repentina e irreversibile.
Ma la cancel culture ha davvero il potere di “far chiudere bottega” o è solo rumore?
Colin Kaepernick: l’ambassador Nike e la rivolta
In questo scandalo troviamo come protagonisti un giocatore di football statunitense, conosciuto anche per il suo attivismo, e il brand di abbigliamento sportivo che, senza dubbio, vive nel top of mind della maggioranza di noi consumatori.
Nike sceglie il volto di Colin Kaepernick come ambasciatore della campagna dei 30 anni di Just Do It.

Ma qual è il problema?
Per capire perché questo è un caso sotto i riflettori della cancel culture, bisogna tornare indietro di qualche anno, a quando il giocatore decise di inginocchiarsi durante l’inno americano in segno di protesta contro il razzismo e gli abusi di potere della polizia americana.
Un gesto per il quale è stato ampiamente criticato, accendendo anche un dibattito nazionale, così potente che anche Donald Trump, in prima persona, ha twittato al riguardo:

È di fondamentale importanza quando si sceglie un personaggio pubblico come volto del proprio brand, comprendere se ci sono vicinanze, tra lui ed il marchio, in termini di valori, ideali e credenze.
Nike, in questo caso, ha deciso di entrare in un territorio più politico delle solite sponsorizzazioni, scegliendo una strada pericolosa, ma assumendosi le responsabilità del caso.
Di fatto, il popolo americano che non appoggiava la causa del giocatore coinvolto da Nike, non ha tardato a “cancellare” il brand. In questo caso, quasi in senso letterale, poiché molti consumatori hanno mostrato online come eliminavano il famoso logo dai loro capi di abbigliamento.

Ma Nike aveva messo in conto accadesse questa “rivolta”? E inoltre, questi consumatori accaniti contro il brand nel 2018, ad oggi, veramente non acquistano più Nike? O si trattava solo di un movimento sociale cui volevano prendere parte per una questione di moda o status symbol?
Le top influencers e il Fyre Festival
Ad oggi, come sappiamo, la figura dell’influencer detiene un potere senza precedenti.
Dunque, le influencer più famose, possono essere paragonate ad un vero e proprio brand, perché vendono la propria immagine e associano la propria persona a qualcosa di acquistabile e tangibile.
Perciò, esattamente come un brand può essere “cancellato”, anche i personaggi pubblici possono incorrere in scandali, scegliendo erroneamente la campagna a cui prestare la propria immagine.
È ciò che è successo qualche anno fa, quando le top model più famose e pagate al mondo sono diventate sponsor ufficiale di “Fyre Festival”.
Si trattava di un evento che si doveva tenere in un’isola bahamense, costato milioni di dollari di investimenti.
Cosa è andato storto?
Il festival musicale più esclusivo di sempre, che prometteva di essere all’insegna del lusso e di pacchetti VIP, si rivelò un completo disastro.
Perché? beh gli “alloggi lussuosi” erano tende in mezzo alla strada e i “catering gourmet” offrivano panini preconfezionati.
I partecipanti si ritrovarono sull’isola senza nessun evento, ma solo seri problemi di sicurezza e numerosi disservizi che hanno messo in pericolo la vita di tutti.
Insomma, una vera e propria truffa.


L’organizzatore principale del Fyre Festival, Billy McFarland, è stato condannato a sei anni di carcere.
Ma cosa c’entrano le influencer?
Alcune modelle del calibro di Bella Hadid, Haley Bieber, Alessandra Ambrosio, Emily Ratajkowki e Kendall Jenner, hanno posato per il video promozionale dell’evento. Rischiando così di essere accusate e “cancellate” dai social, dai loro fans e dai brand con cui erano soliti collaborare.
Proprio per questo, alcune sono state accusate di essere a conoscenza della truffa, altre di non aver svolto bene il proprio lavoro.

Sappiamo che la credibilità delle influencer dipende da ciò che si decide di promuovere. Questa decisione dovrebbe essere basata sulla certezza della qualità del prodotto o servizio sponsorizzato e sulla tutela del consumatore che segue i loro consigli.
Il Fyre Festival è l’esempio perfetto di quanto possa essere potete l’influencer marketing, e di quanto sia pericoloso se fatto in maniera disinformata e non trasparente.
La mancanza di interessamento durante lo stato di avanzamento dell’evento disastroso, i commenti sotto i post delle modelle pieni di ribrezzo e delusione, il silenzio assoluto da parte delle protagoniste dello scandalo: tutti elementi che hanno fatto sì che le top influencer venissero cancellate.
Dolce e Gabbana e gli stereotipi
Quanto saresti disposto a rischiare per generare un po’ di hype?
Forse questa è una domanda che non si è posto il brand protagonista di quest’ultimo caso di cancel culture.
Di fatto, il brand Dolce e Gabbana, nel 2018, si è confrontato con una pioggia di critiche dal popolo cinese; così tanto inondato da trovarsi costretto ad annullare la sfilata di Shangai.
Cos’è successo?
La storia inizia con la diffusione online del video promozionale del brand, che vede protagonista una modella asiatica che tenta di mangiare cibo italiano con le bacchette. Tra abiti tradizionali, forse un po’ antichi, lanterne rosse, motivi musicali discutibili, D&G ha ricevuto prontamente l’accusa di aver proposto un’immagine stereotipata della Cina.

In un’epoca storica così delicata, in cui è necessario stare attenti al peso delle parole, ai significati intrinsechi di ogni gesto e al politicamente corretto, veramente la maison italiana pensava che questa comunicazione non potesse offendere nessuno? O forse questo scandalo è stato un po’ premeditato?
Si dice che la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità, e anche gratuita.
Ma in questo caso, la conseguenza è di essere dimenticati letteralmente da uno show di moda in uno dei paesi più propensi a spendere nel mondo del lusso.

Il consumatore perdona?
Giunti a questo punto della lettura, probabilmente avrete notato che i brand e i personaggi famosi di cui si è parlato, ad oggi, non sono stati veramente eliminati dal web.
Nike e Dolce e Gabbana continuano a essere top player nel proprio settore e le modelle sopracitate posano e sfilano per i brand più lussuosi come se nulla fosse successo.
Dunque, viene spontaneo chiederci:
i brand dovrebbero davvero aver paura della cancel culture, o questa non ha effetti realmente negativi?
A posteriori, sembrerebbe che i consumatori siano disposti a perdonare, in seguito a delle scuse sincere o all’assunzione delle proprie responsabilità.
Sappiamo, ad esempio, che la modella Bella Hadid ha chiesto pubblicamente scusa ai suoi fans per aver sponsorizzato un evento fraudolento. Hailey Bieber ha dichiarato di aver dato in beneficienza i soldi ricevuti dal contratto con Fyre Festival.
Inoltre, anche Stefano Gabbana ha affermato in un post di Instagram che non era sua intenzione offendere la Cina.
In ogni caso, però, i brand devono prestare attenzione a questi movimenti sociali poiché le brand community possono creare e distruggere in poco tempo.
E, soprattutto, non tutti sono bravi a perdonare.